Carmen Weiz

8.

First… endless love Amore senza fine

Novità

Cliffhanger

Storia indipendente

 Questo libro uscirà nel 2025.

Racconto7

“…in quel momento, ogni cosa mi appariva immobile, sospesa in una quiete irreale, priva di vita. Vuota… proprio come me.”

Mi dondolai piano sull’altalena del parco giochi, lasciando che i piedi sfiorassero il terreno erboso. Il cigolio sommesso dei cardini si mescolava al fruscio del vento tra le foglie degli alberi, un suono appena percettibile, destinato a svanire nell’aria. I colori vivaci delle giostre – il rosso, il giallo e il blu – apparivano sbiaditi ai miei occhi, sebbene il parco fosse curato come sempre. I bambini erano già rincasati per la cena; le casette di legno e gli scivoli in metallo sembravano ombre in attesa di riempirsi di nuove risate e avventure il giorno successivo. Eppure, in quel momento, ogni cosa mi appariva immobile, sospesa in una quiete irreale, priva di vita. Vuota… proprio come me.

A una trentina di metri dal punto in cui mi trovavo, la valle si apriva come un ventaglio, con poche villette perfettamente equidistanti l’una dall’altra, costruite lungo il sentiero sterrato che si perdeva tra i campi. Tutto intorno, i prati ondulati si estendevano come un mare verde, interrotto solo da qualche albero solitario e dai boschi che circondavano l’intera cittadina. Attaccati ai pali della luce, da poco accesi e installati per illuminare l’ingresso di ogni casa, riuscivo ancora a vedere – almeno con l’immaginazione – quei maledetti volantini. Non c’erano più, ma il ricordo di quei fogli rimaneva vivido, impresso a fuoco nel mio cervello. Le tinte usate erano sbiadite a causa delle intemperie, i bordi increspati dalla pioggia e dal vento. Non me ne rammentavo, ma scoprii che uno di quei foglietti l’avevo persino conservato. L’avevo trovato la settimana precedente mentre sistemavo l’ultima valigia che avrei portato con me all’università.

Mentre frugavo nell’attico, alla ricerca di una vecchia foto che avrei voluto venisse con me, avevo scorto il volantino, un foglio A5, piegato così tante volte da diventare minuscolo, infilato dentro la custodia di un videogioco dei Lego. Era come se avessi voluto nasconderlo non solo agli altri, ma anche a me stesso. Mi ricordava troppo quel giorno, la promessa che non ero riuscito a mantenere. Forse era stato il mio modo di celare l’orrore di ciò che era accaduto.

Situazioni del genere non sembravano reali, almeno fino a quando non ti seppellivano vivo, come nel mio caso. Non potevano esserlo. Erano fatti, esperienze, che si vedevano nei film o si leggevano nei giornali di cronaca nera, non accadevano di certo in un villaggio tranquillo e sperduto come il nostro. In Kleiner Stein im Fluss o soltanto Im Fluss, come lo chiamavano i suoi abitanti, con sole quattrocento anime, dove tutti si conoscevano per nome e si salutavano con un cenno ogni volta che si incontravano per strada, un evento del genere non apparteneva alla nostra realtà. Eppure, era successo. Tra i campi, i pascoli e le montagne, dove la vita scorreva lenta, immutabile, in una routine scandita soltanto dal cambio delle stagioni, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che qualcosa di così terribile potesse capitare.

Racconto7.1

Ma è successo. E non riesco a dimenticarlo. A dimenticarla…

Diedi un’altra leggera spinta con le sneakers, l’ennesima della serata, mentre un ciuffo indisciplinato dei miei ricci castani mi scivolava davanti agli occhi. Lo sistemai con un gesto quasi meccanico, abituato a farlo mentre giocavo online o guardavo per l’ennesima volta la saga di Star Wars in una delle mie classiche maratone solitarie. Forse, se fossi stato più simile agli eroi con cui giocavo, a quei personaggi che salvavano il mondo o che proteggevano i più deboli, le cose sarebbero andate in modo diverso. Purtroppo non esistevano spade laser con cui combattere o viaggi nel tempo che potessero riportare indietro Milena.

Alzai lo sguardo verso il cielo che stava diventando di un meraviglioso blu cobalto, mentre il sole tramontava piano dietro i campi, riflettendo sulla cittadina e sulla valle sottostante una calda luce dorata. Gli occhiali mi scivolarono un po’ sul naso e, con un altro gesto automatico, li spinsi indietro con l’indice. La mia vita era piena di routine, di piccole abitudini, come aspettare che le stelle si accendessero, proprio come facevo da bambino.

Le stelle… ne ero ancora ossessionato.

Le osservavo con lo sguardo di chi sperava di trovare ciò che desiderava di più là fuori, nello spazio profondo, come in uno dei miei amati film di fantascienza. Ma lì, tra quegli alberi, in quel pezzo di cielo a me caro, non c’erano mai state risposte. Solo il silenzio.

Un battito di ciglia, frenetico e intenso, ed ero di nuovo nel bosco con la piccola Milena che correva davanti a me.

Aspettami! Provai ad avvertirla, ma lei rise mentre si guardava indietro. Una pugnalata mi percosse il cuore quando quel suono limpido si perse nell’aria. Sapevo cosa stava per succedere… ogni volta che provavo a raggiungerla, lei si allontanava un po’ di più, il suo viso diventava sempre più sfocato, distante. Non andartene! Aspettami! Gridai disperato, ma lei non si voltò, finendo per svanire in una nebbia sottile e fredda che scendeva tra di noi, avvolgendo tutto.

Mini, dove sei?

“Mini, dove sei?”

Una fitta di emozioni mi squarciò il cuore, come quelle sensazioni che ti si aggrovigliano addosso dopo un incubo che ti faceva svegliare di soprassalto con l’angoscia che non intendeva abbandonarti. Anche dopo aver acceso la luce, il terrore restava lì, in agguato, come se le tenebre avessero trovato il modo di allungare i loro tentacoli attorno a te, stringendoti fino all’anima. Era quella stessa oscurità che mi accompagnava da anni, una presenza costante ormai.

Avevo perso il conto di quante volte avevo urlato il suo nome porgendo quella domanda – Mini, dove sei? – A squarciagola, ai quattro venti, mentre la cercavo ovunque. Le mie grida si erano trasformate in sussurri, poi in pianti soffocati quando ero da solo nel letto… ma l’unica risposta che avevo ricevuto in tutti quegli anni era stata solo una sinistra e inquietante pace. 

Quell’orribile silenzio, diventato anno dopo anno una coltre oscura, avvolgeva gli alberi, i campi, e anche il mio cuore. Era come se il bosco intorno a me, lo stesso che da bambino sembrava vivo e accogliente, respirasse a fatica, soffocato dal peso di quell’assenza inquietante.

Nonostante i ricordi pronti a dilaniarmi l’anima, raccolsi lo zaino che avevo lasciato accanto all’altalena e tirai fuori il mio blocco da illustrazioni. La speranza era ciò che mi aveva sempre aiutato a superare l’agonia. Quello era il mio mondo immaginario, lo stesso in cui mi rifugiavo quando “tutto” diventava “troppo”. Il disegno, come forma di espressione, era stato suggerito ai miei genitori dal primo psicologo che mi aveva seguito dopo quel terribile giorno. Avevo solo nove anni quando persi la mia infanzia, le parole non riuscivano a uscire, intrappolate dal senso di colpa e da un dolore troppo grande per essere compreso o spiegato al mio piccolo cuore. Il disegno, quindi, era diventato la mia ancora di salvezza, il mio modo di comunicare ciò che non riuscivo a esprimere diversamente. Mi dissero che per i bambini era normale, che spesso le immagini potevano spiegare ciò che si trovava sepolto nel profondo. E così, foglio dopo foglio, cercavo di mettere ordine nel caos che avevo dentro, scarabocchiando mondi immaginari o ritraendo un volto che non potevo più vedere. A mano a mano che crescevo, disegnare era diventato il modo per sfogare ciò che non riuscivo a dire a parole e, quella sera, mentre l’oscurità si stendeva lentamente sui campi, il bisogno di catturare anche solo un frammento di lei, di noi, sembrava più pressante che mai. Sfiorai con riverenza la copertina del blocco con le punte delle dita, esitando per un istante, poi afferrai la matita che tenevo incastrata nell’elastico e lo aprii.

Racconto7.3

Come se il mio cuore avesse ripreso a battere, cominciai a disegnare il suo viso come avrei voluto ricordarlo, con movimenti rapidi e sicuri. Non raffigurai il suo sorriso poiché era un raro dono che mi concedeva soltanto quando eravamo soli e giocavamo tra i boschi. Erano sempre piccoli e timidi. Le labbra si stringevano e gli angoli della bocca si incurvavano, ma non era mai un gesto completo. Era minuto, come la sua figura. Anche i suoi occhi blu di solito solitari, diventavano vivaci e pieni di curiosità quando eravamo insieme. Riportarli su carta era la parte più difficile per me. Avevo la sensazione che sbattesse appena le palpebre, e quando lo faceva era più veloce della maggior parte delle persone, come se non volesse perdere nemmeno un dettaglio della vita. Ogni tratto della matita sul foglio sembrava riportarla a me, almeno per qualche istante. Mi persi così, raffigurando il modo in cui la frangia disordinata le cadeva davanti al viso.

“La mia migliore amica, forse il mio primo amore quando non sapevo nemmeno che significato avesse quella parola. “

Non era il suo primo ritratto che facevo, ma mi accorsi che, con il passare degli anni, diventava sempre più difficile raffigurarla. I dettagli del suo viso si confondevano sempre di più tra i miei ricordi, come se il tempo stesse cercando di cancellarla.

Quando finii, mi fermai a guardare il foglio, il cuore in gola, il petto in fiamme. Era semplice, ma in qualche modo riusciva a catturare l’essenza di ciò che lei era stata per me: la mia migliore amica, forse il mio primo amore quando non sapevo nemmeno che significato avesse quella parola. Un pezzo di carta non avrebbe mai potuto riportarla indietro ma, anche se solo per un istante, mentre la matita graffiava la superficie, sentivo di nuovo la sua presenza accanto a me.

Accarezzai il disegno con riverenza mentre sospiravo provando a sciogliere il nodo che si era formato in gola. Avevo cercato di trattenerla accanto a me per anni, attraverso i miei schizzi. Ma ero conscio che, prima di partire, avrei dovuto lasciarla andare. Forse l’arte era solo un altro modo per eludere l’inevitabile addio.

L’università mi era sempre sembrata la promessa di un nuovo inizio, una via d’uscita da tutto ciò che mi tratteneva. In quell’esanime lasso di tempo, tuttavia, a poche ore dalla partenza, mi domandai se fossi davvero pronto. E se il passato avesse continuato a seguirmi, ovunque andassi? E se non fossi stato mai in grado di costruirmi una vita senza il fantasma di Milena che mi aveva accompagnato per tutti quegli anni?

«È una nuova vita, Julian. Lo so che ti rincresce, ma è arrivata l’ora di lasciarti alle spalle tutto questo… non possiamo controllare le nostre emozioni, tuttavia possiamo farlo con le nostre azioni. Vivi tesoro, Milena avrebbe voluto questo per te e continuerà a sopravvivere nel tuo cuore…» mi aveva detto quella mattina stessa mia madre. Avrei voluto risponderle che ci stavo provando, ma forse non ero in grado di farlo. Non avevo di nuovo trovato le parole che potessero esprimere ciò che provavo. Come avrei potuto spiegarle che ogni valigia, ogni passo che compievo verso quel nuovo inizio, sembrava un tradimento nei confronti della mia migliore amica?

Richiusi il blocco con la matita dentro e mi alzai a fatica dall’altalena. Con movimenti stanchi, lo infilai nello zaino che mi misi sulle spalle. Era come se pesasse duecento chili e, dopo aver chiuso la giacca a vento, mi inoltrai nel bosco. Seguendo il sentiero, passai davanti al piccolo memoriale, una casetta di legno, che la comunità aveva eretto per lei. Ignorai la croce e i vasetti con i fiori che tutti nel vicinato si alternavano a lasciare per mantenere quel luogo sempre fiorito e abbellito. Non guardai nemmeno il piccolo lumino a batteria che avevo portato la settimana precedente, insieme ai miei due nipotini, i figli di mia sorella, per sostituire quello vecchio che non funzionava più. Uscii dal sentiero e continuai a fare un passo dietro l’altro, le gambe arrancavano da sole per un altro centinaio di metri, mentre tenevo lo sguardo fisso davanti a me fino a trovarmi davanti a un determinato fusto: il suo albero.

Racconto7.3

Il grande castagno svettava ancora lì, solido e maestoso come faceva da secoli. Le sue larghe foglie si muovevano leggere nella brezza della sera,  i ricci sparsi sul terreno mi riportavano a quando li raccoglievamo ridendo, fingendo di essere personaggi delle fiabe che Mini amava inventare.

Il respiro mi si bloccò dolorosamente in gola mentre spostavo l’attenzione verso la chioma. I resti della casetta in cui avevamo giocato – e qualche volta anche dormito, di nascosto – erano ancora lì, anche se il tempo aveva consumato il legno, lasciando solo qualche asse marcio a penzolare nel vuoto. Quella casetta era stata il nostro rifugio, il nostro mondo segreto. Da lassù, Milena e io guardavamo le stelle, ci raccontavamo i sogni e fantasticavamo su un futuro che, entrambi, non sapevamo, ma non sarebbe mai arrivato per lei.

Posai la mano sul tronco, la corteccia era ruvida e fredda sotto le dita. I primi anni dopo la tragedia non ero nemmeno riuscito a tornarci, non avevo mai avuto la forza di guardare ciò che racchiudeva la nostra amicizia, ciò che eravamo stati.

Nonostante tutto, per tutto quel tempo, lei aveva sempre occupato un posto speciale nel mio cuore. Lo conservavo ancora, solo per lei, come un tavolo per due persone, posto in un angolo di un ristorante tranquillo, con il cartello “Riservato”, un posticino appartato che nessun altro avrebbe potuto reclamare. Anche se ormai ero quasi certo che non l’avrei mai più rivista, continuavo a tenerlo lì, solo per noi, aspettando il suo ritorno, ma era arrivato il momento di affrontare la realtà. Prima di partire, prima di mettere un punto al capitolo della nostra storia e di lasciare il passato alle spalle, dovevo trovare la forza di dirle addio.

Chiusi gli occhi per un istante, lasciando che i ricordi mi travolgessero. La sua rara risata. Il modo in cui i suoi capelli biondi brillavano sotto il sole mentre correva tra gli alberi, veloce come il vento, più piccola ma sempre un passo avanti a me. E non solo perché era più agile, ma perché io ero il cicciottello, quello con l’asma, che le arrancava dietro. Ma lei non mi aveva mai fatto sentire diverso. Rideva, rallentava l’andatura e mi aspettava, includendomi, rendendomi parte del gioco, come se il mio passo lento e il fiatone non contassero. In quei momenti non mi importava del mio corpo o di quanto fossi impacciato. Tiravo fuori dallo zaino il pacchetto di biscotti al miele e mandorle che mia madre preparava per venderli in città; ne prendevamo una manciata ciascuno e, come sempre, lei mi dava i suoi perché leccassi via tutta la glassa che non le piaceva, prima di restituirglieli. Con lei, mi sentivo semplicemente io. Quei pomeriggi… erano stati i più felici della mia giovane vita, nel nostro bosco incantato, lontani da tutti. Solo io e lei…

Mini aveva un’innata irrequietezza che la spingeva a esplorare il mondo con una gran fame, come se non avesse più tempo. Ogni giorno le veniva un’idea nuova, un’attività che non avevamo mai provato, un nuovo sentiero nel bosco che desiderava percorrere o voci su un luogo immaginario che avremmo potuto visitare.

La sua voce…

Carmen Weiz

Potevo quasi udirla di nuovo mentre mi chiamava dalla cima della casetta: «Dai, Juli, sali su! Hai portato quelle delizie al miele?» E io che ridevo, fingendo di mettere il broncio, di lamentarmi perché lei mi voleva solo per i biscotti, di non volerle stare dietro, ma sapendo che l’avrei seguita ovunque. Sempre. Per sempre…

Eppure, quel giorno non lo avevo fatto. Glielo avevo promesso ma, alla fine, non ero stato lì per lei. E quel senso di colpa mi divorava ancora, anche dopo tutti quegli anni.

Mi inginocchiai piano, sentendomi affondare nel terreno sotto il peso di ogni respiro, di ogni battito del cuore che gravava sul mio petto come se stessi per soffocare. Presi una manciata di foglie secche e terra e le lasciai scivolare tra le dita. Non avevo niente da offrirle, niente che potesse riportarla indietro, ma volevo lasciarle comunque qualcosa. Una parte di me o, forse, un pezzo di quel dolore che mi teneva ancorato al passato.

«Mi dispiace, Mini» sussurrai, la voce rotta. «Mi dispiace così tanto.»

Rimasi lì, piegato su me stesso davanti a quell’albero che era stato testimone della nostra infanzia, del nostro legame, di quella tragedia, finché le prime stelle cominciarono ad accendersi nel cielo sopra di me. E in quel momento capii che, nonostante tutto, non avrei mai potuto dirle davvero addio. Milena sarebbe sempre stata parte di me, come il castagno era parte di quel bosco. Anche se me ne fossi andato, il suo ricordo sarebbe rimasto radicato in ogni angolo di quel posto, così come nel mio cuore che pulsava triste dentro il petto.

Alla fine non avevo scelta, che lo volessi o meno, la vita continuava. Sempre…

Mi alzai e tornai indietro lungo il sentiero. Tobias e Damian dovevano essere già arrivati. Era tempo di andare, ma una parte di me sarebbe rimasta per sempre qui, tra quei boschi, immersa nei ricordi di ciò che eravamo stati. Tra il silenzio e il vuoto che lei aveva lasciato in me.

Tanti momenti…

Facevano parte della nostra natura, erano ciò che ci definiva come essere umani. Ognuno di noi ne aveva vissuti tanti, e io… io ricordavo i miei. Alcuni mi avevano portato esattamente dove volevo arrivare, altri mi avevano cambiato, sfidato, spaventato, persino inghiottito. C’erano le parole che li accompagnavano e che mi avrebbero ispirato o ferito.

Potevo dire che ero giovane e che la mia vita attendeva di essere riempita da molti momenti memorabili. Eppure, i più grandi, quelli più strazianti e quelli altrettanto mozzafiato, li avevo vissuti con lei. Ogni passo importante, ogni gesto che mi aveva toccato l’anima o spezzato il cuore, era legato alla bambina dai capelli d’oro.

E, all’improvviso, un alito di vento sfiorò la mia guancia, per un istante fugace ebbi la sensazione che fossero le sue esili dita a toccarmi, e fu come se almeno una piccola parte di quell’enorme fardello mi fosse stato tolto dal cuore. Milena non sarebbe mai stata solo un ricordo, era una parte di me. Ed era in quei frangenti, sparsi come frammenti di luce e ombre nel passato, che viveva ancora. Forse era così che avrei imparato a portarla con me… per sempre. Non come un’assenza, ma come un tassello di chi ero diventato.

“Ogni passo importante, ogni gesto che mi aveva toccato l’anima o spezzato il cuore, era legato alla bambina dai capelli d’oro.”

 

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