La mia anima da custodire
La mia anima da custodire

1. Ho una vita perfetta, o quasi

Louise

«Lou, ti sta suonando il telefono. Rispondo io…»

Sporsi la testa oltre il vano della porta del bagno. «Grazie Nina, tanto non lo fai sempre?» Mentre finivo la frase stavo già ridendo della risposta indecente che avrei ricevuto.

Tornai a prestare attenzione al mascara e allo specchio che avevo davanti. La mia amica era fatta così, niente avrebbe potuto cambiarla. Ci eravamo conosciute durante la prima settimana di scuola, quando aveva fatto uno sgambetto a Samuel che gli era passato davanti ridendo come una faina, dopo avermi spinta giù dall’altalena. Da quel giorno in poi l’avevo seguita dappertutto, fino a quando non ero riuscita a diventare sua amica. Erano passati oltre sedici anni e il nostro legame era sopravvissuto a molte prove: dalle dispute per chi avesse la bambola più bella, ai primi dolori mestruali, passando per le discussioni sui cantanti più fighi, fino ad arrivare alle lacrime versate per quello che giuravamo essere “il primo e unico amore”. Lei era, e sapevo sarebbe sempre stata, una parte di me, le ero molto affezionata anche perché non avevo mai avuto un riferimento femminile nella mia vita, o almeno non qualcuno che contasse davvero. Al contrario della famiglia, sulla quale non si ha potere decisionale, mi piaceva pensare che le amicizie venissero individuate dal nostro cuore e, anche se avevo altre amiche, ad esempio colleghe di lavoro con cui avevo maggiore confidenza poiché vi trascorrevo diverse ore al giorno, Nina era stata la prima a ricevere quel titolo, perciò occupava un posto d’onore nel mio cuore.

Dal bagno la udii ridere al telefono nella stanza annessa e potevo immaginarla nella sua posa preferita: sdraiata sull’antico letto a baldacchino, con la testa rivolta verso la pediera e i piedi incrociati e appoggiati sulla parete. Voltai la mia attenzione al mio compito.

Evviva, sono arrivata all’ultima parte del trucco. Non ho sbagliato nulla e non ho nemmeno impiegato così tanto tempo…

Con cura pulii il bastoncino del mascara e mi preparai a passarlo sulle ciglia inferiori ma, in quel momento, come per un cattivo presagio, la mia mano tremò leggermente.

Perché diamine sono così nervosa?

Mi fermai, feci un profondo respiro e riprovai. Avrei dovuto dar retta ai miei istinti…

«Ahia!» Sbraitai quando sentii le setole toccare l’occhio. Il mio corpo reagì d’istinto e le palpebre si chiusero con uno scatto. Aprii gli occhi lentamente, ma dentro di me sapevo già che danno avevo appena causato.

«Ohh, no… no, non… no! Che cosa ho fatto?!» Mormorai a me stessa mentre posavo il mascara sul lavandino.

Appena udì le mie parole, ci fu un momento di silenzio nella stanza adiacente, poi Nina domandò: «Cosa hai combinato, Lou?»

Non le risposi subito, stavo provando a fare una valutazione dei danni. Aprii bene gli occhi facendo attenzione a non peggiorare il disastro.

Non battere le ciglia, non farlo! Quel movimento avrebbe aggiunto altre sbavature alle decine di macchioline nere che erano già apparse sopra e sotto le palpebre. Come risultato avevo lo sguardo spiritato, gli occhi enormi che iniziavano già a riempirsi di lacrime.

Cristo Santo sembro la protagonista di un film horror! No! No! NO!

«Nina…» la chiamai implorante. Udii i suoi passi affrettati sul pavimento di legno mentre veniva verso di me. «No, Nathan, adesso non te la posso passare.» Molto probabilmente lui le chiese qualcosa, perché ci fu una pausa seguita da uno dei suoi classici sbuffi. «Non ti preoccupare, le riferisco tutto. Adesso devo andare perché sono sicurissima che la tua ragazza abbia appena combinato un disastro.» Fece un’altra pausa e aggiunse: «No, certo che sta bene, è soltanto qualcosa con il trucco.» Sbuffò di nuovo e disse: «Non ti preoccupare Nathan, è un classico delle donne.»

Riuscii a udire la risata calda di Nathan mentre Nina chiudeva la chiamata. Il suo viso sorridente apparve nel vano, ma subito si trasformò in una smorfia. «Ohh, Cristo Santissimo Louise! Non ti posso lasciare da sola nemmeno un minuto… no! Ferma lì, non provare a sistemare o finirai per peggiorare tutto!»

In fretta, spostò alcune cianfrusaglie che avevo sul mobiletto accanto al lavandino e posò il telefono. Si abbassò, aprì una delle ante e prese alcuni bastoncini di cotton fioc. Infilò la punta di uno di essi nel barattolo di acqua micellare e si avvicinò.

Sentivo il suo respiro sul mio viso mentre con una mano mi teneva il mento e con l’altra passava il bastoncino con un movimento delicato sotto le ciglia della parte inferiore dell’occhio. Approfittai per chiederle:

«Cosa voleva Nathan?»

La sua mano si fermò un secondo, vidi la lingua far capolino in mezzo alle labbra come faceva sempre quando era concentrata. «Adesso guarda giù.» Feci come mi chiese e stavo per ripetere la domanda quando mi anticipò: «Ha detto che sta uscendo ora dall’albergo.»

«Cosa!?» Feci un salto sul posto, per fortuna lei allontanò in fretta il bastoncino o sarei finita come la piccola paziente che avevo visitato il giorno precedente: una dolcissima barboncina ipovedente.

Per sicurezza fece un ulteriore passo indietro. «Lou respira… scusa, ma perché diamine sei così nervosa? Guarda che abbiamo ancora tempo…»

«Non penso proprio.» Mi conoscevo abbastanza bene da sapere che stavo per entrare in modalità panico. L’ultima volta che mi ero sentita in quel modo fu quando diedi l’esame di ammissione all’Università e, a metà del test, dovetti andare in bagno a vomitare. Le frasi uscirono tutte insieme, come se non sapessi rispettare l’uso di un’ideale punteggiatura, tantomeno usare l’intonazione della voce. Lo stomaco si attorcigliò su se stesso causandomi uno spasmo così forte che, se Nina non fosse stata lì, avrei già dato di stomaco.

«L’albergo-in-cui-è-ospite-è-vicino-all’aeroporto…», feci un breve respiro e continuai: «questo-vuol-dire-che-Nathan-sarà-qui-tra-una-quarantina-di-minuti.» I miei polmoni sarebbero scoppiati se avessi continuato in quel modo… «Non-avrò-tempo-per-fare-tutto.»

Non ce la facevo più. Mi fermai per riprendere fiato. Nina mi conosceva abbastanza bene da sapere che era meglio lasciarmi sfogare, per questo motivo, come se non avesse nessun’altra preoccupazione nella vita, si sedette sul bordo della vasca di ghisa e aspettò.

Feci un altro respiro per calmarmi, ma sembrava che non ci fosse abbastanza aria nel bagno. Iniziai a camminare da una parte all’altra, per fortuna lo spazio era abbastanza ampio. Del resto, quello era uno dei vantaggi di abitare in una villa del diciannovesimo secolo.

«Non abbiamo ancora scelto il vestito che indosserò, e guarda i miei capelli, sono un disastro! Oddio, devo mettere le scarpe o i sandali saranno più adatti?» La mia voce diventava sempre più isterica, man mano elencavo tutti i dettagli che dovevamo ancora decidere.

«Ehi… Lou…»

La ignorai. «Cristo Santo, e se poi non piaccio a sua madre? E se scambio i nomi dei suoi fratelli e sorelle, lo sai che è stato adottato, no? La sua famiglia è enorme…» Nina alzò gli occhi sugli affreschi sul soffitto, come se stesse implorando pazienza agli angeli dipinti lassù, ma non avevo ancora finito. «Peggio ancora… e se inciampo o rompo qualcosa come faccio semp-» non riuscii a finire la frase, la mia voce tremò.

«Ehi!» Il suo tono basso e autoritario mi bloccò, ma subito lo ammorbidì. «Andrà tutto bene, vedrai. Loro ti adoreranno Lou, non ti preoccupare.»

Si alzò e mi abbracciò senza dire nulla, facendomi sentire soltanto il contatto del suo corpo, e una leggera carezza sulla schiena. La strinsi a me e sussurrai: «Grazie, Nina…» Quanto le volevo bene… sentii il mio cuore scoppiare di gratitudine per averla accanto.

«Di niente, amica mia.» Sicuramente percepì che mi stavo nuovamente calmando perché si allontanò e prese un altro bastoncino umido. «Adesso vieni, altrimenti non riusciremo davvero a finire in tempo.»

Feci come mi chiese e quando riuscì a sistemare il mio disastro, passammo ai capelli con cui almeno non c’era molto da fare. Anche se lunghi, erano assurdamente lisci e, già da piccola, non c’era nemmeno una molletta o un elastico che riuscisse a compiere il proprio lavoro. Tutti gli accessori, senza eccezioni, restavano al massimo qualche minuto sulla mia testa. Avevo perso tanti di quei gingilli che, quando iniziai ad andare a scuola, mia madre smise di comprarli.

«Lou, secondo te Nathan ti farà la proposta oggi?» Guardò il mio anulare come se aspettasse di vedere magicamente spuntare un anello al mio dito, poi spostò nuovamente la sua attenzione verso di me. «È per questo che sei così nervosa?»

Rimasi un attimo in silenzio ponderando la mia risposta. «No, non sono nervosa per questo.» In verità, a parte per il fatto che avrei conosciuto i suoi genitori, io per prima non riuscivo a capire perché mi sentissi così agitata. «Non penso che Nathan mi farà la proposta, Nina. Non abbiamo nemmeno un posto in cui vivere, inoltre ha appena finito lo stage triennale alla banca.» Non volevo dirle che, molto probabilmente, il mio ragazzo non era un tipo da matrimonio. Certo, sicuramente anche io speravo che un giorno avremmo potuto convivere, ma sposarsi in una chiesa e spendere dei soldi per una festa? No, decisamente no. Innanzitutto Nathan non era legato a nessun tipo di religione, inoltre lavorava in ambito finanziario, il che lo rendeva un uomo strettamente pratico e quella era una delle qualità che, in assoluto, mi piaceva di più in lui. Eravamo completamente opposti: come lo Yin e lo Yang, il giorno e la notte. Lui era serio, il genere di persona che restava sveglia la notte, anticipando le varie possibilità e prendendo decisioni ipotetiche praticamente su ogni cosa. Io ero la sognatrice giocherellona, l’eterna sbadata, mentre lui era impeccabile qualsiasi cosa facesse. Nathan si alzava alle sei cantando e io, invece, non riuscivo a ragionare prima di aver bevuto una bella tazza di caffè, e altre cose del genere…

«Invece penso che tu ti stia sbagliando, quel ragazzo è completamente innamorato di te.» La sincerità di Nina era una delle caratteristiche che apprezzavo maggiormente in lei, quello che diceva era sempre coerente con i suoi pensieri. Bastò la sicurezza che incise in ogni parola a tranquillizzarmi. Sorrise soddisfatta mentre faceva delicatamente scendere la spazzola tra le ciocche sulla schiena. Nel frattempo presi gli orecchini di diamanti che mia madre mi regalò per il mio diciottesimo compleanno e li indossai.

Insieme finimmo il trucco leggero che avevamo scelto e poi ci spostammo nella camera. Continuammo a chiacchierare, lei come sempre mi dava risposte incoraggianti, mantenendo la conversazione su argomenti neutrali in modo da non aumentare la mia tensione.

Era una sensazione stranissima. Nathan mi aveva parlato benissimo dei suoi genitori. Sapevo che abitavano in una cascina, che erano persone semplici e per bene, perciò il fatto che mi sentissi come se avessi ingoiato una bomba a orologeria, che continuava incessantemente a ticchettare nel mio stomaco, mi sembrava una reazione alquanto esagerata. Il problema era che non sapevo come attenuare quella sensazione, perciò, senza scelta, lasciai che la bomba continuasse a dar voce alla mia agitazione facendo finta di non udirla.

Nina stava rimettendo nell’armadio i vestiti che avevamo scartato e io stavo finendo di legare i delicati lacci dei sandali, quando udii la voce di mio padre provenire dal piano di sotto.

«Lou, Nathan è appena arrivato. Vieni tesoro.»

Nina, che era la più vicina alla porta, rispose: «Grazie, signor Blumen, scendiamo subito.»

Udii la porta d’ingresso aprirsi, il saluto di mio padre e la risposta di Nathan, poi i saluti di Peggy e di Molly, le mie due cagnoline. Potevo già immaginarlo: molto probabilmente era accovacciato e stava facendo qualche grattino alle loro pancine o alle orecchie. In effetti, dalla mia stanza riuscivo a sentire gli ululati di Peggy, la più festaiola delle due. Anche Pipì, la mia gattina nera, che stava dormendo nella sua cuccia sotto il letto, molto probabilmente sentì i rumori dal soggiorno, poiché con la coda dell’occhio la vidi attraversare la stanza correndo, in direzione delle scale.

Mi alzai, presi la borsetta e il cardigan rosa chiaro appoggiato sopra la toeletta e mi fermai davanti allo specchio accanto all’armadio. Anziché guardarmi, i miei occhi vagarono velocemente per la stanza che, un tempo, era stata di mia nonna. Sentii un nodo stringermi la gola quando pensai che, prima o poi, avrei dovuto lasciare la sicurezza di quel luogo. Ero nata e cresciuta nella villa, tra quelle pareti avevo ascoltato le storie che mia nonna mi leggeva quando ero piccola, con Nina avevamo giocato alla Bella addormentata sul letto a baldacchino, a Raperonzolo e ad essere Giulietta affacciate sul piccolo terrazzo. Qualche giorno prima che la nonna venisse a mancare, mi fece un dono che considerai un onore: mi chiese se avessi accettato come regalo la sua stanza, i suoi mobili, che lei considerava i suoi piccoli tesori. La voce di Nina alle mie spalle mi riportò al presente.

«Questo colore si abbina perfettamente ai tuoi capelli. Con la mia pelle scura sembrerei una foglia alla fine dell’autunno: triste e invecchiata.»

Risi della sua battuta, anche se non ero d’accordo con lei, almeno non per quanto disse di sé. La mia amica sarebbe stata splendida anche se avesse indossato un sacco di iuta. La sua bellezza era nel suo sorriso, nel modo aperto e simpatico con cui si rapportava con le persone. Tuttavia, ero d’accordo con il commento che aveva espresso su di me. Il colore verde scuro del vestito metteva in risalto la mia pelle ancora leggermente abbronzata e i capelli castani. Il cardigan che avevo scelto era soltanto una precauzione. Mio padre diceva sempre che l’estate in Svizzera era volatile, imprevedibile come una diva di Hollywood.

«Vieni, Lou…» Nina era già accanto alla porta con la valigetta che avevo preparato, stimando che avrei passato la serata con il mio ragazzo, come facevo sempre quando era in città. «Devi andare, o farai veramente tardi.» Quando le passai accanto, mi strinse la mano in modo incoraggiante e, insieme, scendemmo le scale.

Mi fermai sul penultimo gradino, con la mano fissa al corrimano. In quel momento ringraziai Dio per la fortuna che avevo. Accovacciato vicino a Peggy e a Molly, il mio ragazzo mi osservava. Lentamente si alzò e mi fissò con “quello sguardo”: occhi azzurri, scuri e profondi come l’oceano, erano loro che mi avevano conquistata la prima volta in cui l’avevo visto. Poteva sembrare assurdo, ma quell’espressione non smetteva mai di provocarmi piccoli brividi di gioia e, tante volte, anche di piacere. Si passò lentamente la mano sui capelli che aveva pettinato in grosse ciocche ordinate, poi la infilò nella tasca dei pantaloni e mi regalò un assaggio di uno dei suoi sorrisetti da brividi. Ricambiai il suo gesto, era impossibile non farlo. Nathan indossava sempre completi da lavoro e li amavo alla follia, quel pomeriggio non era così elegante, ma sapevo che i jeans li aveva messi soltanto per me, poiché di solito preferiva gli abiti più informali nei giorni liberi. Il paio che aveva scelto era il mio preferito: scuri, con un taglio classico che lo rendevano elegantemente sexy. La camicia con le righine chiare metteva in risalto il suo viso ancora abbronzato, residuo delle nostre ultime vacanze, per me finite la settimana prima, quando ero tornata da Singapore, dove Nathan stava finendo il suo ultimo tirocinio, il “Graduate Talent Program”. Negli ultimi tre anni aveva vissuto in diversi paesi: Londra, Hong Kong, Dubai e, appunto, Singapore, dove si era trasferito negli ultimi sei mesi.

Per chi pensava che le relazioni a distanza non avrebbero potuto funzionare, lui e io eravamo la prova vivente del contrario. Certo, la banca in cui lavorava ci fu d’aiuto, grazie alle riunioni mensili organizzate a Zurigo e alla concessione delle ferie in cui aveva il biglietto aereo pagato per tornare a casa. A volte pensavo che riuscissimo a vederci più spesso quando viveva all’estero rispetto a quando eravamo nella stessa città. Quel tipo di relazione aveva un vantaggio: in vacanza avevo visitato posti bellissimi, mi ero svegliata tra lenzuola profumate e fatto colazione a letto in talmente tanti alberghi da perderne il conto.

Indubbiamente, anche la nostra relazione aveva avuto dei “momenti bassi”: gli eterni viaggi all’aeroporto per gli addii, le infinite lacrime versate i primi giorni di separazione, le settimane in attesa del prossimo incontro, le chiamate in piena notte a causa del fuso orario, l’inevitabile gelosia. E il cuore, sì il cuore, che sentivo cadere a pezzi tutte le volte che desideravo solo un suo abbraccio, di sentirmi al sicuro avvolta dalle sue braccia, ma dovevo accontentarmi soltanto di una videochiamata.

Per quanto riguardava Nathan, quello che mi teneva unita a lui, non era soltanto la sua bellezza, la sua intelligenza, o il mio amore per lui, bensì il fatto che fossi convinta che eravamo anime affini. Nei primi anni le nostre vite erano state travagliate, ma così come me, Nathan era cresciuto in una famiglia che lo amava e che lo aveva sostenuto fino a farlo diventare l’uomo affermato e sicuro di sé che avevo davanti. Era quello che amavo in lui: la sua sicurezza, il fatto che sapesse esattamente in che direzione volesse condurre la sua vita. Era come se avesse pianificato il suo futuro nei minimi dettagli e, per me, che non riuscivo nemmeno a decidere quali vestiti avrei indossato il giorno seguente, Nathan era una fonte di ispirazione quotidiana. Ovviamente, lui notò che mi ero persa tra i miei pensieri, cosa che mi succedeva spesso, così richiamò la mia attenzione a sé.

«Sei bellissima, Lou.» Prese la mia mano e mi aiutò a scendere gli ultimi gradini. Nina mi aveva superata, aveva posato la valigetta accanto alla porta di entrata e si era accovacciata prendendo il suo posto tra le cagnoline e Pipì, la gattina.

Accanto a lui apparve papà, aveva ancora lo straccio della cucina sulla spalla. Sapevo che, molto probabilmente, avrebbe mangiato da solo, a quel pensiero il mio sorriso vacillò leggermente. Se lo avessi detto a Nathan, sicuramente lo avrebbe portato con noi, ma sapevo che papà non si sarebbe sentito a suo agio. Per lui quella era la giornata in cui avrei conosciuto i genitori del mio ragazzo e l’invito non si estendeva a lui. Almeno non per il momento.

Lasciai la mano di Nathan per prendere quella che mi offriva mio padre. Mi fece fare un giro su me stessa, lo faceva da quando ero bambina e indossavo bei vestiti nelle giornate speciali.

«Quanto sei bella, bambina mia…» Lo abbracciai prima che qualcuno potesse udire il leggero tremore nelle sue parole. Lui mi strinse a sé, mi lasciai avvolgere dalla sua presenza confortante. Mio padre e la signora Emilia, che per anni ci aveva aiutato in casa, mi erano rimasti accanto senza farmi mai mancare niente, specialmente dopo che mia madre se ne era andata.

Volevo restare ancora con papà, Nina e i miei amici a quattro zampe, in quel bozzolo di sicurezza e amore che era la mia casa, però come diceva sempre Nathan, forse era ora di crescere e prendere in mano le redini della mia vita. Tra l’altro dovevamo davvero partire o non saremmo arrivati in tempo, e l’ultima cosa che volevo era fare una brutta figura proprio in quel giorno così speciale. Salutai papà che mi strinse a sé un momento in più del necessario, poi toccò alle mie piccoline, diedi un bacio veloce a Nina con la promessa di chiamarla più tardi e uscii con Nathan nella calda giornata estiva.

Ad aspettarmi fuori dalla porta c’era un gigantesco SUV color argento. Guardai Nathan che, dopo aver messo la mia valigia nel bagagliaio, si era fatto avanti per aprirmi la portiera.

«Da dove viene questo macchinone?» Non ero un’esperta di automobili, ma sapevo riconoscere il lusso quando lo vedevo. Affondai nel morbido sedile di cuoio nero e lui chiuse lo sportello. Quando si sedette accanto a me, aveva un sorriso birichino che mi fece immaginare quanto quel ragazzo fosse stato carino da bambino. Era come se avesse tra le mani il giocattolo dei suoi sogni.

«Hai visto che roba?» Accarezzò il volante e si guardò attorno. «Aspetta di vedere il tettuccio.» Premette un pulsante accanto allo specchietto retrovisore centrale e, soltanto allora, notai che riuscivo a vedere le foglie del platano che si trovava in mezzo al cortile.

«Wow, un tetto interamente di vetro, che bello Nathan!»

Il suo sorriso aumentò ancora mostrandomi una fila di denti candidi e le due fossette che tanto amavo. Stava già venendo verso di me, perciò chiusi gli occhi e mi preparai a ricevere uno dei suoi baci.

Dio, come sapeva baciare quel ragazzo…

La sua bocca accarezzò la mia come se stesse facendo l’amore con me. Con Nathan era tutto nei dettagli: il modo in cui piegava leggermente la testa da una parte prima di approfondire il nostro contatto, come passava delicatamente le dita sul mio viso, come se fossi stata di porcellana, il suo respiro soave che si fondeva con il mio, la morbidezza dei suoi capelli.

Un leggero bussare sul vetro mi fece fare un salto. A malavoglia Nathan si staccò da me e guardò in cagnesco Nina, appena fuori dal mio finestrino, che con l’indice batteva sull’orologio che aveva al polso.

«Farete tardi…» ci ricordò con un sorriso impertinente.

Le feci una linguaccia che lei ricambiò con un bacio. Nathan accese la macchina e bofonchiò: «Dovremo urgentemente trovare un ragazzo per lei. Oggi voglio scoprire chi tra i miei fratelli è ancora single.»

Risi mentre salutavo Nina che era già accanto alla sua macchina, parcheggiata vicino alla vecchia golf di papà.

Nathan la lasciò partire per prima e poi la seguimmo. Aprii una fessura nel finestrino mentre ci inoltravamo nella stradina sterrata. Volevo ascoltare i rumori del bosco rigoglioso che tanto amavo, ma quella mattina l’attenzione era tutta per lui, il mio ragazzo. Mi godetti ancora altri dettagli: il profumo che usava sempre, l’accenno di barba che gli ricopriva la mascella virile, i capelli pettinati con il gel, la camicia perfettamente stirata… poi mi ricordai la macchina e spostai la mia attenzione sul lussuoso abitacolo:

«Allora, come mai quest’auto?»

Il tono della sua voce assunse uno strano stato di venerazione, lo stesso che usava tutte le volte in cui parlava del suo lavoro. «Eh già, l’azienda che noleggia le auto alla banca mette a disposizione questa bellezza soltanto per i manager…»

Persi il resto della frase mentre lo guardavo a bocca aperta. «Allora ce l’hai fatta. Ti hanno offerto il lavoro?»

Non ci fu nemmeno bisogno che mi rispondesse. Il sorriso meraviglioso sul suo viso e il modo in cui annuì compiaciuto me lo confermarono. Iniziai a saltellare sul sedile.

«Oh Dio, oh Dio, Nathan… ma è… aspetta, ferma la macchina!»

«Perché?» Mi chiese ridendo, mentre stava già facendo come gli avevo chiesto. Appena si fermò sul ciglio della stradina, slacciai la mia cintura, mi voltai verso di lui e lo abbracciai.

«Sono così felice per te! Ce l’hai fatta, Nathan!» Stavo combattendo contro le mie emozioni: la voglia di piangere, quella di gioire e seppi che restare soltanto accanto a lui, seduta sul mio sedile, non era abbastanza.

«Cosa fai?» Mi chiese, la sua voce tra i miei capelli, vicino all’orecchio, mi provocava brividi su tutto il corpo. Prima che potesse obiettare, lo zittii con un bacio. Volevo che sentisse tutte le emozioni che provavo in quel momento. Ma non fu abbastanza, perciò appena ci staccammo, scavalcai il vano portaoggetti in mezzo a noi e mi sedetti a cavalcioni su di lui.

«Sei stato scelto tra tutti i candidati.» Gli dissi tra un bacio e l’altro. Nella mia gola si formò un groppo, ma era di felicità, di orgoglio.

«C’erano soltanto cinque posti…» mi rispose tra un respiro e l’altro, la sua mano scese delicata seguendo la scollatura sulla schiena, contornò il sedere e fui investita dall’ennesimo brivido. Per fortuna eravamo ancora nella stradina sterrata e non passava mai nessuno da quelle parti.

«Non importa, sei stato scelto. Sono così orgogliosa di te…» La mia voce sussultò quando le sue mani iniziarono a salire in modo languido sulle cosce portandosi dietro il vestito.

«Stai parlando con il più giovane tra i “client wealth manager”. C’erano oltre centocinquanta candidati…» soffiò le parole sul mio collo.

«Sei il migliore, Nathan.»

Le sue mani salirono ulteriormente, prendendo il mio viso da entrambi i lati e mi allontanarono con delicatezza. Il suo sguardo era emozionato quando disse: «Ce l’abbiamo fatta Lou. Sai quanto ti amo…»

Lo abbracciai forte. «Anch’io, Nathan. Anch’io…»

«Più tardi ci sarà una festa al mio albergo per conto della banca. Con diritto di colazione a letto…» Sussurrò, mi mordicchiò il lobo dell’orecchio e poi aggiunse con un sussurro rauco: «Soltanto per me e te.» Dio, quel ragazzo sapeva esattamente come farmi impazzire. «Adesso, però, dovremo davvero andare, o mia madre…»

A malavoglia tornai al mio posto e allacciai nuovamente la cintura di sicurezza mentre lui rimetteva l’auto in moto.

«Dunque, quando torni finalmente a casa? Se hai bisogno, ti posso aiutare a cercare un appartamento.» A quel pensiero mi mordicchiai il labbro, sentendomi sempre più euforica all’idea che, finalmente, sarebbe tornato a vivere in Svizzera. Mi guardò con la coda dell’occhio mentre alzavo e abbassavo le sopracciglia in un modo suggestivo. Se non lo avessi conosciuto così bene, quel piccolo dettaglio sarebbe potuto passare inosservato, ma c’era qualcosa nella sua espressione che mi fece vacillare. Aveva lo sguardo fisso sulla strada che serpeggiava scendendo la collina, era giusto che facesse attenzione alla guida, no? Tuttavia, notai un leggero movimento ritmico appena pronunciato nella sua mandibola.

«Cosa succede, Nathan?» Posò la mano sulla mia coscia e diede una leggera strizzata, potevo già dire che quel tocco non mi piaceva. Era una sorta di consolazione in anticipo per la brutta notizia che sarebbe arrivata a momenti.

Le cose peggiorarono quando si schiarì la voce e quello mi piacque ancora meno. Faceva sempre così quando doveva iniziare un discorso serio, era qualcosa che stonava completamente in quel momento. Il nostro momento.

Mi voltai per guardare fuori dal finestrino e sentii, senza che potessi fare assolutamente nulla per evitarlo, una specie di macigno posarsi esattamente dove si trovava il mio cuore. Abbassai lo sguardo sulla sua mano proprio quando la intrecciò alla mia. Mi ritrovai a fissarle, come se dovessi memorizzare la sensazione della sua pelle e, nuovamente, sentii quel subbuglio, uno strano senso di panico che stava nuovamente per scatenarsi dentro di me, ed ero convinta che anche lui lo sentì perché mi strinse le dita.

«Il posto che mi hanno offerto, amore, è a Singapore…»

Rimase in silenzio, ma non c’era assolutamente bisogno che aggiungesse altro. Soltanto in quel momento capii il perché del biglietto last minute che mi aveva regalato, la sua insistenza affinché tornassi da lui. Il fatto che quando eravamo lì, mi aveva portato in giro a conoscere tutti i migliori quartieri, piuttosto che Palawan, Pulau, le altre spiagge, o ancora i luoghi turistici. Il perché ero dovuta tornare da sola e lui era rimasto ancora per qualche giorno.

«Da quanto tempo lo sapevi?» Con la coda dell’occhio notai che aprì la bocca per rispondere, ma fui più veloce. «Per questo hai insistito tanto che venissi a trovarti?»

Ritirò la mano dalla mia e strinse il volante. «Ehi! Non è così, non dire queste cose!» La sua voce era diventata un sussurro offeso e la mia reazione fu inevitabile, era più forte di me. Incrociai le braccia all’altezza del seno, lottando contro le emozioni contrastanti che sentivo crescere in me. Mi voltai, pronta per affrontarlo e percepii quanto l’argomento fosse difficile anche per lui. Stringeva il volante sempre con più forza e il suo bel viso si era completamente oscurato. Piccoli dettagli che, all’improvviso, mi sembrarono così odiosi!

Sospirò pesantemente prima di continuare. «Perché le donne devono sempre trovare un problema anche in una situazione ipoteticamente perfetta?»

In una giornata diversa, in un altro momento, avrei potuto raccontargli tutte le cose che mi erano successe nelle stradine che avevamo appena percorso: appena uscita di casa avrei potuto fargli vedere il luogo dove papà mi insegnò ad andare in bicicletta senza le rotelle. Un po’ più avanti, quando era passato sopra il vecchio ponticello in legno, avrei potuto dirgli che era il luogo dove, da bambina, insieme a Nina e ad altre amiche facevamo i picnic, potevo fargli vedere le sponde del fiume su cui giocavamo. Avrei potuto raccontargli che nella villa disabitata della famiglia Lehmann, quella accanto alla mia, la stessa che lui diceva sempre scherzando che avrebbe acquistato, avevo conosciuto il mio primo amore, ma niente di tutto quello avrebbe avuto importanza per lui. Certo, avrebbe potuto commuoversi, rimanere addirittura incantato dalle mie parole, ma non avrebbe mai capito le mie motivazioni, il perché fossi così attaccata alle mie radici, alla mia famiglia. Non avrebbe mai capito la mia sofferenza all’idea di allontanarmi da quei luoghi. Il solo pensiero di lasciarmi tutto alle spalle, mi mandava in iperventilazione. In effetti, proprio per confermare le mie parole, Nathan aggiunse:

«Per me le cose sono piuttosto semplici, Lou: io ti amo, tu mi ami, stiamo insieme da quasi tre anni e non sono riuscito a trovare nessuna offerta di lavoro migliore qui in Svizzera. Fine della storia.» Le ultime parole le pronunciò in modo così secco che mi ritrassi sul mio sedile. Lui mi guardò velocemente prima di riportare di nuovo l’attenzione verso la strada, ma potei vedere il suo sguardo ferito.

«Lo sai che il posto da “Financial operator wealth manager” è un’opportunità che non posso perdere Lou. Si tratta della mia carriera, è soltanto un contratto triennale, poi potremo spostarci ovunque in Asia.»

Ovviamente anche Nathan mi conosceva abbastanza bene, perché mise enfasi sul bel titolo e sulla parola “soltanto’’, provando invece a far passare le parole “triennale” e “ovunque in Asia” come se fossero soltanto un piccolo dettaglio, o per meglio dire, cercò di farle passare del tutto inosservate. Non volevo farmi vedere debole, ma non potevo neanche fare a meno di sentire un nodo in gola, appuntito come mille spine, quelle stesse che Nathan mi stava piantando a forza nel petto.

Guardai nuovamente fuori dal finestrino, in cerca di una distrazione, di un po’ di sollievo. Come avrei potuto far capire al mio ragazzo quanto amassi la piccola clinica veterinaria in cui lavoravo da quando mi ero laureata? Come avrei potuto raccontargli, ad esempio, del caso della signora Grun, l’anziana con i capelli così bianchi da sembrare fiocchi di cotone. Portava quasi tutte le settimane il suo cagnolino Firu per una visita, anche se era palese quanto il suo animaletto, quasi anziano quanto lei, stesse bene. Mi ero sempre sforzata di rimanere il maggior tempo possibile ad ascoltare tutte le peripezie di Firu, perché sospettavo che potessi essere l’unica persona con cui la povera signora avrebbe parlato per tutto l’arco della giornata. Come avrei potuto raccontargli l’emozione che provavo a coordinare un gruppo di stagisti prima della laurea. L’onore che era per me fare parte di quelle prime esperienze, perché le avrebbero conservate per sempre nei loro cuori. Come avrei potuto far capire quelle cose a un uomo che viveva in un mondo dominato dalla logica, che trascorreva le sue giornate in compagnia di numeri e grafici che scorrevano per dodici ore di seguito in diversi schermi di computer, e che sorrideva quasi in estasi quando si trovava davanti a un intricato documento di Excel.

Come sua ragazza era mio obbligo provarci, giusto? Così azzardai a esporre il mio umile, tuttavia importante parere, con un sussurro quasi inaudibile. «Il mio inglese è pessimo e…e…» iniziai a balbettare, «mi piace il mio lavoro.»

Si era appena fermato prima di imboccare la strada statale, mi guardò con tenerezza e accarezzò nuovamente la mia gamba.

«Lo so, Lou. Ti chiedo scusa se ho orchestrato tutto, sapevo che altrimenti non saresti venuta. Sei una ragazza intelligente, versatile e semplicemente speciale, troveremo qualcosa per te anche a Singapore, vedrai. Dobbiamo cercare di guardare il lato positivo, immagino che tu non voglia restare in questo paese per sempre. Entrambi desideriamo andare avanti, verso l’alto e vedrai che supereremo tutti gli ostacoli insieme.»

Non riuscivo a capire bene come mai, quando faceva discorsi del genere, c’era sempre un “noi’’. In questo caso, nello specifico, era evidente che il problema fossi soltanto io. E poi, l’intonazione della sua voce e la scelta delle parole, mi facevano sentire sempre come se stessimo facendo una specie di riunione aziendale.

Va bè, è più grande di me di quasi quattro anni, però…

Ho le mie idee, i miei desideri, non posso arrendermi così.

«Non hai altre aspirazioni? Perché non cerchi di considerare questo viaggio come un trampolino di lancio per qualcos’altro? Non hai un altro sogno professionale che desidereresti perseguire?»

Lo guardai in tralice. È una specie di domanda a trabocchetto?

Ignaro dei miei pensieri, Nathan continuò il suo discorso, sempre più entusiasta. «Per la lingua l’inglese non sarà affatto un problema, ti posso aiutare io. Hai una solida esperienza lavorativa, sei in gamba, e sei la miglior veterinaria che io conosca.»

Un misto tra uno sbuffo e una risata uscì dalle mie labbra, perché era per il mio lavoro che ci eravamo conosciuti. Una domenica, intorno all’ora di pranzo, ero di turno e lui era arrivato. Aveva suonato il campanello e quando la stagista che mi accompagnava gli aveva aperto la porta, avevo visto quel ragazzo meraviglioso, con lo sguardo stravolto dalla tristezza, che portava in braccio un bozzolo di coperte con dentro un piccolo agnellino appena nato, che aveva dei seri problemi respiratori. Non mi sarei mai dimenticata la tenerezza con cui l’aveva posato sul tavolo degli esami, i suoi occhi colmi di lacrime quando si era accorto che il piccolino non respirava più. Anche se sapevo che sarebbe stato inutile, avevo provato a rianimare il povero animaletto. Qualche momento più tardi, Nathan si era portato via l’agnellino per seppellirlo nel giardino dei suoi genitori. Qualche giorno dopo, mentre stavo uscendo dal lavoro lo avevo rivisto, indossava un completo che sembrava essere fatto su misura ed era appoggiato al cofano della macchina, come se aspettasse qualcuno. Quella sera, in un piccolo e accogliente ristorante, avevo scoperto che aspettava soltanto me. Così iniziò la nostra storia…

Tuttavia, come potevo spiegargli quanto amassi la mia casa, il mio lavoro? Non erano luoghi qualsiasi, bensì posti che possedevano una storia che si intrecciava con la mia, era come se avessero un’anima direttamente collegata a ciò che sentivo battere nel cuore. Non avevo mai pensato che si potesse accusare la perdita di un luogo come se si fosse trattato di un arto – un dolore costante e insormontabile. E non mi ero nemmeno soffermata a pensare alle mie piccoline o a mio padre.

Cristo Santo… papà…

Vedevo già il suo viso risplendere di felicità. Lui aveva sempre voluto che “aprissi le ali e spiccassi il volo”. Parole sue, non mie. Ma come avrei potuto lasciarlo? Mia madre aveva fatto la stessa cosa per un motivo simile: un altro lavoro, un’offerta, secondo lei, irrecusabile, da un’azienda di un altro paese. Ero soltanto una ragazzina e quando le avevo risposto che non sarei andata con lei, non era nemmeno rimasta scioccata, aveva soltanto rimarcato “quanto fossi figlia di mio padre”, quanto i miei “orizzonti” fossero poveri e patetici. Con il passare degli anni avevo scoperto che per lei non eravamo altro che esperimenti, cavie come quelle del laboratorio farmaceutico in cui lavorava. E poiché non avevamo superato uno dei suoi stupidi test di ricerca, ci aveva etichettati come “risultati scarsi/fallimenti”, così ci aveva accantonati per passare a un progetto più interessante, o più redditizio.

Su insistenza di mio padre, avevo continuato comunque a incontrarla durante le vacanze e lei aveva continuato a portarmi in giro per il mondo, come se volesse farmi vedere quanto esisteva al di fuori del mio piccolo paese. Non le era mai passato per la testa di chiedermi se mi stessi divertendo o dove sarei voluta andare le prossime volte in cui ci fossimo incontrate. Mi aveva trascinata da un paese all’altro, in ristoranti pregiati, musei, boutiques, concerti o qualsiasi luogo che, secondo lei, avrebbe potuto “raffinare” il mio intelletto. Quando diventai adulta, probabilmente scoprì che il suo esperimento era nuovamente fallito, perché aveva smesso di invitarmi a unirmi ai suoi viaggi. Sinceramente, avrei dovuto ringraziarla per tutto quello che avevo imparato stando in sua compagnia, ma soprattutto dovevo ringraziarla per avermi fatto conoscere la persona che non avrei mai voluto diventare: lei stessa.

Chi sarebbe rimasto con papà? Chi sarebbe andato a trovare la signora Emilia che aveva accudito la villa e si era presa cura della nostra famiglia, quando mia madre se ne era andata? Lei ormai viveva in una casa per anziani e le nostre visite erano uno dei suoi pochi momenti di svago. Non si trovavano più persone speciali come lei, la vita giorno dopo giorno diventava sempre più frenetica, sempre meno accogliente. Dopo Emilia, avevamo dovuto nuovamente contrattare un’azienda che mandasse delle signore due volte a settimana a pulire la villa. Papà lavorava ancora come consulente di un’azienda che vendeva prodotti per veterinari, lo stesso mestiere che faceva da oltre trent’anni, e oltre ai suoi amati libri, ero praticamente l’unica a tenergli compagnia nei fine settimana e alla sera.

Chi passerà il Natale con lui, la nostra tradizionale grigliata di Pasqua o la giornata del primo agosto per la festa nazionale, chi andrà con lui al mercato della domenica in bicicletta? Con chi festeggerà il suo compleanno?

Sentii il dolore crescere in un modo così forte, inarrestabile…

«Ehi…» Nathan richiamò la mia attenzione a sé. Mi fece una carezza sul viso. Mi sporsi verso di lui con gli occhi chiusi, non volevo che percepisse il turbinio di emozioni che mi frastagliavano il cuore in quel momento.

«Ne parliamo dopo, va bene?» Annuii, le palpebre erano ancora serrate. «Per favore, Lou, non avere quel viso triste. Oggi doveva essere un giorno speciale…»

Aprii gli occhi e provai a sorridergli. «Hai ragione, scusami.»

Incrociò nuovamente le nostre dita, le portò alle labbra e mi baciò le nocche. «Qualsiasi problema lo affronteremo e lo risolveremo insieme, va bene?»

Annuii nuovamente, non mi fidavo della mia voce.

«Siamo una squadra, Lou, sempre…»

Ripetei il suo gesto e baciai le sue nocche. «Sempre…»

La mia voce riempì il silenzio, ma le parole rimasero lì, nell’abitacolo, per molto tempo dopo che le pronunciai. Il resto del tragitto verso la casa dei suoi genitori lo facemmo praticamente in silenzio. Provai a convincermi che quella calma non fosse solo apparente, mentre interrogativi volavano, senza sosta, nella mia mente.

Perché mi sembra di vivere una vita in cui non ho la possibilità di scegliere? O, peggio ancora, perché sento che qualsiasi strada sceglierò di percorrere, sarà una decisione che ferirà qualcuno a cui voglio immensamente bene?

Perché?

La mia anima da custodire

2. La famiglia Engel

Louise

Singapore… tre anni… poi potremo spostarci ovunque in Asia… Il cuore può smettere di battere per una tristezza così acuta?

«Lou… amore, guarda siamo arrivati.»

Fu il suo tono allegro, veramente fasullo, a farmi tornare al presente. Mentalmente mi rimproverai, non potevo lasciare che la nostra discussione o il mio nervosismo rovinassero un giorno così speciale. L’argomento non era certamente concluso, ma la nostra relazione aveva superato tutto; come aveva detto lui poco prima: eravamo una squadra.

Soltanto in quel momento notai che eravamo usciti dalla piccola cittadina, le case erano praticamente sparite e i giardini recintati che ci avevano accompagnati per gli ultimi chilometri avevano lasciato posto ai campi verdi. La macchina sobbalzò leggermente quando, a passo d’uomo, oltrepassò una cancellata doppia in metallo rosso. Alla mia destra, su una tavoletta di legno dipinta a mano lessi: “Benvenuti alla fattoria sperimentale degli Engel.”

Accantonai le mie preoccupazioni e gli feci un sorriso che, per fortuna, sembrò rassicurarlo. Udii la sua voce diventare nuovamente leggera quando aggiunse:

«Lo sai, vero, che sono stato uno degli ultimi bambini a essere accolto in questa casa?» Appoggiò gli avambracci sul volante e si inclinò verso di esso. Mi sporsi anch’io per avere una visuale migliore della base della collina dove sorgeva la Riegelhaus, una tipica casa in stile svizzero. Il sole, ormai alto nel cielo, si rifletteva sulla facciata bianca con le travi di legno rosse facendola risaltare, tuttavia rimaneva in perfetta armonia con il resto della prateria che si stendeva a perdita d’occhio fino ai margini della foresta, che appariva come una macchia indistinta sulla linea dell’orizzonte. Il lato destro della casa era circondato da un orto che delimitava un recinto dentro cui pascolavano tranquillamente mucche e pecore.

«L’idea dell’agricoltura sperimentale è nata qualche anno dopo il mio arrivo. Mi ricordo ancora quando lo hanno costruito…» Seguii il suo sguardo che nel frattempo si era spostato su un capanno a una trentina di metri dalla casa. Davanti a esso, su un piazzale in ghiaia, erano parcheggiati tre furgoni bianchi con la stessa scritta presente sull’insegna all’entrata.

Proseguimmo ancora per qualche metro poi Nathan oltrepassò un’aiuola e parcheggiò sotto l’ombra di un platano dove alcune galline beccavano tranquillamente il terreno. Quando spense la macchina udii il gorgoglio di un ruscello e, in lontananza, un cane abbaiare.

«Oggigiorno i miei genitori accolgono soltanto adolescenti e non più bambini. Penso che io li abbia fatti tribolare talmente tanto che si siano scoraggiati.» Fece una delle sue risate che tanto amavo e seppi che tra di noi, almeno per il momento, era stata raggiunta una sorta di tregua.

Mi guardai attorno mentre prendevo dal sedile posteriore la borsetta e il vaso con le roselline che avevo comprato lungo la strada. Mi piaceva il fatto che quel paesaggio mi ricordasse tanto casa mia. Un luogo idilliaco, dove ti sentivi a milioni di chilometri dalla città, dove le case, anche se distanti le une dalle altre, avevano un’identità propria, nomi anziché numeri. «Penso che gli spazi aperti, le fattorie siano dei posti stupendi dove far crescere dei bambini. Siete stati veramente fortunati ad avere un’opportunità come questa.»

Nathan mi aveva raccontato che Marion, la madre adottiva, era una rinomata psicologa e suo padre, Andrew, un militare in pensione; da anni lavorano con ragazzi provenienti da famiglie disagiate e, in casi speciali, anche richiedenti asilo, rifugiati e orfani di guerra.

Improvvisamente si voltò verso di me e mi accarezzò la guancia.

«Hai ragione, Lou, la mia famiglia è veramente speciale. Non vedo l’ora di farti conoscere i gemelli, ma anche Noah, Yke, Sämi, Brudi e tutti gli altri. Non sono sicuro che Annely ci sia perché ha avuto da poco il bambino, ma so per certo che Trudi è in viaggio come volontaria da qualche parte in India.»

Aprì lo sportello ma si voltò verso di me prima di scendere, probabilmente doveva aver notato che non mi ero ancora mossa, perché aggiunse: «Non ti preoccupare amore, so che sei nervosa e hai paura di non ricordare i nomi di tutti, ma lo sai che certe volte faccio confusione pure io.»

Feci un profondo respiro e provai a sorridere mentre aprivo la portiera e scendevo all’aria tiepida dell’estate. Quando la richiusi lui era già accanto a me.

«Vieni, ci staranno aspettando.» Il modo sicuro in cui posò la sua mano sulla mia bassa schiena mi diede il coraggio che mi serviva, e il peso che gravava sul mio cuore si alleggerì. Mi appoggiai a lui, mi lasciai invadere dal suo calore. Come se avvertisse il mio bisogno, si avvicinò e mi avvolse il braccio attorno alle spalle.

Insieme salimmo i quattro gradini che conducevano al portico principale, mentre ammiravo i vasi di gerani colorati e altri fiori sparsi ovunque. Nathan suonò il campanello e si fece avanti senza aspettare che qualcuno venisse ad aprire la porta.

Strinsi il mio vasetto di rose al petto mentre entravamo in soggiorno. Almeno il nervosismo di conoscere i suoi genitori fu subito dissipato quando Marion Engel apparve provenendo dalla cucina. Dicono che la prima impressione sia quella che rimane, potevo affermare che quella donna sapeva esattamente come mettere le persone a proprio agio.

«Ciao Nathan, che bello vederti.» Mi misi da parte, ma mentre lei lo abbracciava il suo sguardo felice si era posato su di me. I suoi capelli castano scuro avevano alcune onde di grigio naturale, era il tipo di donna che sorrideva spesso, lo vedevi dalle piccole rughe che le circondavano gli occhi, quasi come se si potesse sentire il suo sorriso.

«Mamma…» la voce di Nathan era goffa quando mi presentò. «Questa è la mia Louise.»

Diedi il vasetto a Nathan e allungai la mano, ma fui presa completamente alla sprovvista dal suo abbraccio affettuoso.

«Finalmente Nathan, era ora che ci facessi conoscere il tuo grande amore.» Prima di lasciarmi andare mi sussurrò tra i capelli: «Benvenuta a casa nostra Louise, nella nostra famiglia.»

Era strano a dirsi, ma con un solo abbraccio Marion Engel riuscì a trasmettere l’affetto che mia madre, in quasi diciotto anni vissuti insieme, non era mai riuscita a darmi. Mi lasciai cullare da quella meravigliosa sensazione e fu soltanto quando si allontanò che mi resi conto che altre persone si erano unite a noi. Nathan le porse il vasetto che, prima di posare sul tavolo, annusò elogiando il profumo e il colore chiaro delle piccole rose. Poi Marion mi presentò Annely, il marito e il suo nipotino Mathias, il piccolino che dormiva tra le braccia della madre. Seduta sul divano, accanto a Annely, c’era una ragazza bionda della mia età che mi salutò presentandosi come July. Mentre Marion prendeva la mia borsa e la appoggiava sul tavolino davanti al divano, mi raccontò che per pranzo saremmo stati soltanto noi, perché tre dei suoi ragazzi erano in gita in Francia e Germania con la scuola per una settimana, mentre gli altri erano a casa di amici.

«Nathan ha scelto la data perfetta. Io amo i miei ragazzi, ma soltanto Dio sa quanta confusione siano capaci di fare quando si mettono tutti insieme.»

Marion sapeva esattamente come farmi sentire a mio agio, davvero, e quando, qualche minuto più tardi insieme a July la aiutavo ad apparecchiare la tavola, mi stavo già chiedendo perché mai fossi stata così nervosa all’idea di conoscerla.

Nathan, che era rimasto con Annely e Mathias a chiacchierare, le chiese degli altri, così le rispose:

«I gemelli sono al lavoro in ospedale e forse passeranno per il caffè e Noah, beh… questa sì che è una bella domanda.» Rise mentre aggirava il tavolo dando gli ultimi ritocchi.

«Papà e Brudi dove sono?»

«Eccomi. Io sono qua» rispose dalla cucina una voce tonante. Qualche secondo dopo apparve quello che immaginai essere Andrew Engel. Il patriarca aveva i capelli grigi ben tagliati, mi sorrise mentre si presentava con l’autorità naturale di un uomo che aveva servito l’esercito. Ero sicura che fosse una di quelle persone che, in caso di bisogno, poteva intimidire con un solo sguardo e parlare senza sprecare una parola. Si strinse a Nathan e i due si scambiarono uno di quegli abbracci tipicamente maschili.

Insieme finimmo di apparecchiare, con la conversazione che fluiva naturalmente. Risposi alle loro domande sul mio lavoro e potei godere dell’armonia del luogo, della casa, della famiglia.

Consumammo il pranzo e poi ci spostammo nella veranda dove ci sedemmo lasciando che il maestoso paesaggio circostante ci facesse da anfiteatro. Godemmo del pomeriggio di sole, circondati dai profumi dell’erba e dei fiori, del pigro ronzio delle api e del canticchiare degli uccelli. Le nostre risate erano spensierate e ogni tanto udivo il leggero mugolio del piccolo neonato che dormiva tranquillo nel passeggino in soggiorno.

Mangiai il dessert e risi mentre la famiglia attorno a me, della quale mi sentivo sempre più parte, scherzava sulle solite battute tra genitori, figli e fratelli, e molto presto dimenticai completamente il nervosismo e la tensione che avevo sentito qualche ora prima.

Stavamo bevendo il caffè quando il telefono di Marion squillò. Scusandosi si alzò per rispondere. Continuammo a chiacchierare mentre lei, ancora al telefono, si spostava in cucina. La sentii parlare e dal tono amorevole della sua voce, capii che si trattava di uno dei suoi figli.

«Certo tesoro, li metto subito in forno. Allora ci vediamo tra una ventina di minuti.» Marion rise prima di rispondere. «Certo che non lascerò bruciare i tuoi dolcetti, da quanti anni li inforno?»

Accanto a me, notai che anche Nathan stava facendo attenzione alla telefonata di sua madre. Quando chiuse la chiamata e si sedette nuovamente sulla poltrona le chiese:

«Stavi parlando con Brudi?»

Marion gli rispose di “sì” e lui si voltò verso di me con un’espressione entusiasta.

«Finalmente potrai conoscere uno dei miei fratellini preferiti e assaggiare i suoi favolosi biscotti.»

Seduta dall’altra parte della veranda, Annely e il marito annuirono e accanto a loro, il signore Engel, aggiunse con orgoglio:

«Dobbiamo chiedergli di cucinare per noi una di queste sere. Non hai idea del talento di quel ragazzo…»

Per confermare le sue parole un leggero profumo iniziò a diffondersi nell’aria.

Mentre la conversazione proseguiva, la mia attenzione si spostò verso l’odore che si spandeva sempre di più. Al contrario degli altri, che ero sicura provassero una deliziosa sensazione da acquolina in bocca, per me quel profumo fu il primo segnale che qualcosa di veramente travolgente stava per accadere.

A destare i miei sensi furono i ricordi che quell’odore portava con sé. Era qualcosa collegato al passato ma non riuscivo a collocarlo nel tempo. Le emozioni dentro di me erano talmente contrastanti che mi estraniai completamente da quel che mi stava accadendo intorno. Mi sentivo come se avessi ascoltato una canzone e la melodia fosse rimasta impressa da qualche parte nella mia anima, tuttavia per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare i versi. Rimaneva soltanto il ritmo costante come quello delle onde che si infrangono sulla battigia. Qualcosa dentro di me mi spronava a ricordare, perché ero sicura che quell’odore portasse con sé momenti indimenticabili, ma, allo stesso tempo, sentivo che quei ricordi avrebbero portato talmente tanto dolore da essere insopportabili e forse era proprio il motivo per cui il mio cervello si rifiutava tempestivamente di portarli a galla.

Un brivido mi scosse e rimasi lì, persa, fino a quando in lontananza udii una voce, un richiamo per tornare al presente. Mi aggrappai alla sicurezza del suo timbro.

«Lou… ci sei…» una risata sommessa. Sentii che appoggiavo le dita sulla fronte e premevo forte mentre farfugliavo qualcosa a proposito di un mal di testa.

Una scusa… mi serve una scusa… 

Finalmente distinsi la voce di Nathan, era da lui che proveniva la sicurezza.

«Non preoccupatevi, ogni tanto lei si allontana così, per qualche secondo.» Accolsi il contatto, l’intimità del suo tocco che accarezzava la mia schiena.

Tornai in me, il viso caldo per quello che sapevo essere rossore. Tuttavia quando mi guardai attorno notai che le chiacchiere proseguivano e nessuno sembrava essersi accorto di nulla, o forse erano soltanto molto bravi a far passare la cosa inosservata. Mi sentii immediatamente rincuorata.

Nathan appoggiò la mano sulla mia coscia ma la sua attenzione era rivolta verso il padre che gli raccontava qualcosa su un nuovo progetto.

Appoggiai la mano sulla sua e la strinsi leggermente richiamando la sua attenzione. Quando mi guardò mi avvicinai e gli dissi a bassa voce:

«Vado un attimo al bagno e poi andrò a prendere il cardigan in macchina.»

Con dolcezza mi accarezzò il braccio: «Stai bene amore? Sei terribilmente pallida.»

Allungò una mano e mi sentì la fronte come fossi una bambina. «Vuoi che prenda io il tuo maglioncino? Hai la pelle d’oca.»

«Non ti preoccupare. Vado io…» prima che potesse aggiungere altro, presi la chiave che mi porgeva, mi scusai con gli altri e mi alzai. Con la coda dell’occhio percepii che Marion, la madre di Nathan, rideva su qualcosa che la figlia le stava dicendo, ma sentii che i suoi occhi mi accompagnarono fino a quando entrai nel piccolo bagno situato sotto la scala che portava al piano superiore.

Inumidii le mani e le passai dietro al collo nel vano tentativo di destarmi dagli ultimi momenti vissuti. Appoggiai le mani ai bordi del lavandino e mi piegai in avanti mentre facevo un profondo respiro, era come se l’odore dolciastro mi avvolgesse e mi stritolasse in una lenta spirale di ricordi. Decisi di prendermi qualche momento, per recuperare la mia compostezza, prima di tornare dagli altri. Quando uscii nel corridoio l’odore che proveniva dalla cucina si era intensificato.

Perché questo odore mi è così familiare?

Quando varcai la porta di ingresso quasi non riuscivo più a respirare. Mi fermai sotto il portico, appoggiai la mano sulla balaustra e presi delle grosse boccate d’aria.

Che diamine mi sta succedendo…

Fu in quel momento che notai un vecchio pick-up parcheggiato accanto alla macchina di Nathan. Stavo provando a ricordare se quella macchina si trovasse già lì al nostro arrivo, quando con la coda dell’occhio notai un ragazzo moro che veniva giù per il campo con una gallina tra le braccia, sembrava stesse portando un pacco prezioso. Il suo comportamento inconsueto richiamò la mia attenzione. Sorrisi come una sciocca perché, nonostante la sua testa fosse bassa e non riuscivo ancora a udirlo, data la distanza tra di noi, ero sicura che stesse parlando con l’animale.

C’era qualcosa di familiare nel modo in cui si muoveva, ma non riuscivo a dare un senso e a collegare tutti quei ricordi che mi bombardavano senza pietà. Erano lì, formicolavano sotto la pelle, esattamente come era successo con l’odore proveniente dalla cucina. Tutte quelle informazioni erano la chiave per un ricordo che non riuscivo a sbloccare. Rimasi ferma, incantata a osservarlo. 

Sarà un cliente della clinica… Deve essere sicuramente così…

In fondo al mio cuore sapevo già che non era il proprietario di uno dei miei pazienti, l’inganno verso me stessa aveva avuto vita breve. Lui non mi aveva ancora vista ma, mano a mano che si avvicinava, i piccoli pezzi di informazioni che il mio cervello aveva raccolto iniziarono a collegarsi.

L’odore dei biscotti… questo ragazzo… non può essere lui… non è lui…

Sconvolta, portai le mani al petto e feci un passo indietro verso la porta di entrata in modo che non potesse vedermi. Quando giunse vicino alla casa posò la gallina per terra. Era ovvio che l’animale avesse confidenza con lui perché invece di scappare e andare con le altre a beccare il terreno lì accanto, gli rimase vicino, con la piccola testolina rivolta verso l’alto, lo guardava come se aspettasse che lui le dicesse qualcosa. E fu esattamente ciò che fece. Si abbassò e, mentre le accarezzava le piume marroncine del petto, le disse:

«Non posso portarti dentro, Gordon, lo sai che a Marion non farebbe piacere.»

Dicono che con il passare degli anni la nostra voce muti di pari passo a noi. Tuttavia ero sicura di una cosa, anzi l’unica in quel momento: la prima volta che avevo sentito quella voce ero soltanto una ragazzina, ma avevo avuto una specie di premonizione che mi aveva scosso fino all’anima, esattamente come i brividi che avevo sentito qualche attimo prima. Mi aveva parlato da lontano, e sapevo che, in qualche modo, quei ricordi mi avrebbero cambiato la vita per sempre.

Fu la medesima sensazione che ebbi in quel momento? Era possibile essere colpiti così tanto per il suono di una voce?

Il suo nome uscii come una preghiera tra le mie labbra. «Aiden…» e continuò a ripetersi nella mia testa, ma il rumore era niente rispetto ai battiti del mio cuore che stavano ormai per raggiungere un livello allarmante.

Deglutii mentre scuotevo la testa. Provai a calmarmi, a pensare in modo ragionevole. Sicuramente non si trattava davvero lui. Ma quegli occhi, i capelli che avrei voluto arruffare leggermente con le dita, la sua bocca. Erano passati anni da quando l’avevo visto l’ultima volta, ma non sarei mai riuscita a dimenticare il suo aspetto o la sua voce. Per anni mi ero chiesta cosa gli fosse successo.

Anni!

Molto probabilmente lo chiamai ad alta voce perché si alzò e guardò nella mia direzione con un sorriso titubante sulle labbra. Feci un passo in avanti in modo che potesse vedermi.

Doveva essere lui, anzi ero sicura fosse lui e sapevo anche che mi avrebbe riconosciuta. Nel momento in cui i nostri occhi si incontrarono il suo viso sbiancò e il sorriso sparì. Aprì la bocca come se stesse per dire qualcosa, ma gli mancò il fiato… sembrava stesse per svenire.

«Louise?»

Fu lo stesso anche per me. Lui rimase lì in piedi a qualche metro, come uno spettro proveniente direttamente dal passato. Abbassai gli occhi sui suoi piedi per assicurarmi che non fosse sospeso in aria.

Non è un fantasma. È lui, è reale, ed è in piedi proprio di fronte a me. È il mio cuore che, continuando a battere così forte, risalirà per la gola scappando via da me… da lui…

Rimasi incollata alla colonna come se dovesse sostenermi, avevo momentaneamente perso l’uso della parola. Era come se le sue iridi fossero il percorso della sua storia, e, proprio come era successo anni prima, qualcosa mi spronò dicendomi che quello che stavo per fare era corretto, era giusto.

Non volevo provarci.

«Aiden?» sussurrai. Appena finii di dire il suo nome, tirò un rapido respiro di sollievo e fece tre passi enormi nella mia direzione. Mi sorpresi a fare lo stesso mentre scendevo i gradini di corsa. Ci incontrammo a metà strada e ci gettammo l’uno tra le braccia dell’altra.

«Cristo Santo, sei proprio tu!» C’era una gentile familiarità nella sua voce mentre mi stringeva in un abbraccio forte. Imitai i suoi movimenti, come se avessi paura che potesse svanire da un momento all’altro.

Respira Lou, è soltanto un abbraccio… un gesto così semplice, soltanto le sue braccia che si stringono intorno a te, polmoni che respirano, cuori che battono in sintonia, un solo momento e due persone in piedi in mezzo a una tempesta di emozioni.

Riuscii a stento a restare in piedi anche se dentro mi sentivo crollare per la forza di tutti quei sentimenti. Io… lui… i nostri ricordi…

Fu lui ad allontanarsi per primo, ma senza lasciarmi andare. Mi mise le mani sulle spalle e fece un passo indietro per guardarmi. I suoi occhi si allargarono mentre osservava avidamente il mio aspetto, la bocca leggermente socchiusa e un sorriso tenero gli si disegnò tra le labbra. Sembrava completamente rapito e quando parlò la sua voce era intrisa di quella dolcezza che avevo tanto amato.

Amato…

«Non sei cambiata per niente.»

Mi coprii la bocca con la mano ancora scossa e, finalmente, mi permisi di guardarlo per bene. I suoi tratti bellissimi erano ancora gli stessi, ma di certo non era più l’adolescente magro e cupo che ricordavo.

«Certo non posso dire lo stesso di te, Aiden.»

Guardò se stesso e rise. Dio, è un suono così perfetto, solo ora mi rendo conto di quanto mi sia mancato.

«Hai ragione» e poi aggiunse: «Qualche anno nell’esercito fa questo effetto.»

Eravamo entrambi sotto shock, forse era il motivo per cui non riuscivamo a dire nulla. Continuavamo a guardarci e a scuotere la testa increduli. Lui rise nuovamente e io feci lo stesso. Alla fine tolse le mani dalle mie spalle e piegò le braccia conserte sul petto. «Allora sei tu la fortunata, cioè, la ragazza di Nathan?»

Lo disse in modo così disinvolto che gliene fui grata. Forse non ricordava il modo in cui ci eravamo lasciati, sempre che si potesse usare quel termine, per il modo in cui ci eravamo conosciuti o la natura della relazione che avevamo avuto; restava il fatto che mi avrebbe risparmiato un sacco di imbarazzo se avesse davvero scordato certi dettagli, almeno quelli più scioccanti, della nostra separazione.

«Sì, sono io.» Costrinsi la mia risposta a suonare spontanea come la sua domanda, però sentii la mia voce vacillare e sperai che non se ne fosse accorto. Tutto sembrava un sogno: anche se in termini fisici meno di due metri ci separavano ed eravamo così vicini, oltre un migliaio di chilometri ci tenevano a una distanza che si poteva definire concreta, qualcosa di palpabile che ero sicura provassimo entrambi.

Era tutto così irreale, e solo in quel momento capii il mio nervosismo di quella mattina, le assurde reazioni che il mio corpo aveva avuto, i segnali che mi aveva mandato. Era, forse, stato un presagio? Sentivo nuovamente il peso ancora impellente dentro il cuore e il nervosismo nello stomaco, non riuscivo più a discernere se fossero i residui della discussione con Nathan, l’incontro con la sua famiglia o la presenza di Aiden davanti a me.

«Ci siamo conosciuti circa due anni fa, io e Nathan, intendo…» farfugliai e mi pentii immediatamente di quanto gli avevo rivelato. Era un’informazione superflua e mi faceva sembrare arrogante e presuntuosa. Lui annuì soltanto, come se fosse in possesso anche di quell’informazione. Molto probabilmente lo era, anche se Nathan non tornava quasi mai a casa, aveva raccontato di noi ai suoi fratelli, giusto?

Aiden continuò a sorridere in modo consapevole. Guardai oltre le spalle verso la porta, sapevo che sarei dovuta tornare dentro.

Lui se ne accorse e fece un primo passo verso il porticato, ma poi si fermò.

«Aspetta… fammi portare Gordon al pollaio. Quando questa furbetta mi vede, scappa sempre per farmi un saluto.»

«Gordon?» Fu più forte di me, scoppiai a ridere e quel suono parve avere uno strano effetto su di lui. Prese la gallina in braccio e le accarezzò le piume del collo, ma i suoi occhi restarono fissi sui miei. Aiden aveva sempre avuto un modo travolgente di guardarmi. Era come se la sua anima potesse leggere la mia. Portai il mio sguardo sulla gallina mentre lui diceva:

«Dunque, Louise, ti presento Gordon Bleu.»

Risi nuovamente. «Gordon Bleu o Cordon Bleu? Veramente Aiden… hai dato il nome di un filetto di pollo ripieno di prosciutto cotto e formaggio fondente a una gallina?»

L’animale spostò il suo sguardo da me a lui come se aspettasse una risposta all’altezza della mia sfacciataggine. Lui le fece una piccola carezza e poi aggiunse:

«È una lunga storia.» Il sorriso vacillò e, in seguito il suo sguardo si intristì. «Te la racconterò forse in un altro momento. Aspettami, torno subito.»

Senza aggiungere altro uscì a passo spedito in direzione del pollaio. Qualche minuto dopo tornò da solo. Ero ancora nello stesso posto, pietrificata come una statua di sale, i pensieri che turbinavano attorno alle sue ultime parole.

Forse in un altro momento…

Si fermò davanti a me e sostenne il mio sguardo per un momento senza aggiungere nulla. Ostentava una finta tranquillità, ciononostante sapevamo che c’erano tante altre cose da dire, ma nessuno dei due sapeva da che parte cominciare. Oppure sapevamo entrambi che non fossero il luogo e il momento giusto per farlo.

Se mai ci sarà un momento giusto…

Il suo sguardo si spostò dal mio per un attimo e poi fece un cenno con la testa verso la porta. «Probabilmente dobbiamo entrare.»

Ero d’accordo con lui perciò annuii e lui fece lo stesso ma nessuno dei due si mosse.

«Allora cosa mi racconti di te? Sei sposato? Hai una ragazza?» Erano domande assurdamente improprie e non ero sicura se lo stessi chiedendo per estendere la conversazione o solamente per…

Per cosa, pura curiosità femminile?

«In realtà non sono sposato, ma sì, mi sto vedendo con una ragazza, si chiama Melina. Stiamo insieme da quasi sei mesi ormai.»

Sei mesi? Mi misi una mano sul petto per attenuare uno strano dolore e annuii. «Questa è una bella notizia. Sembri felice.»

Sembra felice? Non ne ho idea.

«Sì. Mmmm… grazie.» Tra di noi calò nuovamente lo stesso silenzio angosciante che avevamo condiviso attimi prima.

Gli stessi silenzi che abbiamo condiviso tanti anni fa….

Sorrise, ma quel gesto sembrò innaturale. «Sono davvero felice di averti visto, Louise.» Si voltò per entrare, fece due passi poi si girò verso di me con le mani infilate nelle tasche dei jeans. «Ti volevo soltanto dire…» fece una pausa come se stesse ponderando le prossime parole: «Sei… indescrivibilmente bella» sussurrò e poi aggiunse: «Avrei voluto che questo incontro fosse avvenuto qualche anno fa. In altre circostanze…»

Trasalii al tono della sua voce, cercai inutilmente di non lasciarlo penetrare a fondo, ero consapevole che quelle parole avrebbero scavato fino a mettere le radici nel mio cuore. Ovviamente fu invano. Lui salì i primi gradini e poi si voltò.

«Non vieni?»

«Sì, cer- certo.» Cristo, sto balbettando! «Arrivo subito.» Indicai l’auto di Nathan. «Devo soltanto prendere il mio maglioncino in macchina.»

Gli feci un sorriso incoraggiante e, quando la porta si chiuse alle sue spalle, armeggiai con le chiavi. Mi sfuggirono di mano per ben due volte prima che riuscissi a premere il pulsante per aprire l’auto. Scivolai dentro e chiusi la portiera. Afferrai il volante desiderando disperatamente di trovare un modo per calmarmi. Chiusi gli occhi e sentii un’enorme lacrima scivolare sulla guancia e cadere sulla mano.

Per anni avevo sognato quel momento. Un incontro fortuito come magari un cliente venuto in clinica o forse uno casuale in un ristorante o, addirittura, per strada. Quello che non mi sarei aspettata era scoprire che fosse uno dei fratelli del mio ragazzo e, peggio ancora, di provare così tanto dolore per quella notizia.

Forse è un bene. Questo è successo per un motivo.

Il mio cuore aveva bisogno di una chiusura per poterlo donare completamente a Nathan.

Quindi, questo dovrebbe essere un bene! È una cosa buona, giusto?

Allora perché sto piangendo? Perché sento una voragine al posto del cuore, un nodo in gola e così tanto voglia di sfogarmi in un pianto liberatorio? Come una barchetta lasciata sotto un temporale, libera di bagnarsi, da sola, nel suo dolore.

Mi ricordai di aver sentito, per la prima volta, quelle stesse emozioni durante un giorno di inverno. Mi vidi a diciassette anni, il cuore schiacciato sotto il peso della consapevolezza che non avrei mai più rivisto il mio migliore amico, che il mio primo amore non mi avrebbe mai più aspettata. Udii le mie grida risuonare nelle orecchie: erano selvagge e dense di dolore, come una creatura che soffre in un modo indescrivibile. Poi mi ricordai l’istante quando tutto il dolore svanì e una coltre di oscurità mi avvolse prima gli occhi, poi il corpo e mi consumò portandomi con sé.

No, tutto questo mi farà sentire meglio. Questa è solo la natura umana, occorre guarire una vecchia ferita per prepararsi a un nuovo inizio.

Giusto?

In quel momento capii che ogni cosa sarebbe cambiata per me. Venni travolta dalla consapevolezza che una piccola fessura dentro a uno scompartimento sigillato nel mio cuore si era appena aperta e aveva lasciato fuoriuscire una piccola scintilla, un solo sussurro di quella parte della mia vita. In essa era racchiusa tutta l’allegria e il dolore che vissi in quelle settimane e compresi che si sarebbe trasformata in una nuvola di tempesta che avrebbe stravolto ogni singola parte del mio futuro. Da quel fatidico momento in poi tutte le volte che avrei fatto l’amore con Nathan l’avrei tradito.

L’avrei fatto non con il mio corpo, bensì con il mio cuore, con la mia anima, perché al suo posto avrei visto il viso di un altro uomo e, involontariamente, nei miei sogni avrei sussurrato un altro nome.

Infine, con la testa premuta sul volante, piansi, perché la mia vita era diventata improvvisamente molto più buia e complicata di quanto avrei mai potuto immaginare e desiderai poter tornare indietro, quando la mia più grande aspirazione era rendere felice quel ragazzo con gli occhi velati di dolore.

Grazie per aver letto questi capitoli.

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Grazie di cuore,

 

 

? Carmen Weiz